Scrivere di sé, raccontarsi per non raccontarsela

Negli ultimi anni l’uso della scrittura come strumento di benessere si è parecchio diffuso e si sono ottenuti molti sviluppi nella clinica e nella ricerca.

A partire dalla metà degli anni ’80 del secolo scorso Pennebaker ha avviato un serie di studi molto rigorosi che hanno dimostrato in maniera inconfutabile l’importante impatto positivo dello scrivere di sé sulla salute psichica e fisica; ai suoi studi hanno fatto eco quelli di diversi altri autori e Luigi Solano, nel libro “Tra Mente e Corpo”, a seguito di un’attenta analisi di una larga fetta di letteratura, arriva a concludere che 

Costruire storie è un naturale processo umano grazie al quale gli individui arrivano a comprendere le proprie esperienze e se stessi.
Questo processo consente di organizzare e ricordare gli eventi in modo coerente, e nello stesso tempo, di integrare pensieri e sentimenti.

Indipendentemente dalle più recenti evidenze sperimentali l’uso della scrittura come pratica di benessere è noto da molto tempo e molti hanno avuto modo di verificarlo. Sembra che scrivere faciliti l’emersione di contenuti inconsci e la loro integrazione e rielaborazione, aiuti a dare un senso ad esperienze traumatiche o importanti in generale; inoltre può essere uno strumento analitico che porta all’insight e alla rielaborazione cognitiva ed emotiva o avere un valore curativo di per sé come ad esempio nel consentire di esprimere il non espresso.

L’uso della scrittura può anche favorire lo sviluppo di importanti funzioni psicologiche quali l’intuizione, la concentrazione, l’attenzione e la volontà.

Secondo Duccio Demetrio:

si scrive di sé soprattutto quando, sbigottiti, nel panico e nell’angoscia di non sapere più dove si sia e chi si sia, ci si aggrappa alla penna quasi essa fosse un’ancora e la carta un porto nel quale chiedere asilo. O anche un territorio che la frenesia riempie di parole alla ricerca di una mappa, almeno elementare, per uscire dalla crisi devastante che soverchia ogni energia vitale.

Si scrive per suturare una ferita, per colmare un vuoto, per trovare un bandolo perduto. Talvolta questo istintivo ricorrere alla mano quando se ne abbia facoltà – che chi non sa scrivere sostituisce con l’urlo lacerante di dolore, con il pianto sfrenato e il lamento antico – riesce a placare chi a corpo morto si getta sulla pagina, la riempie fitta di segni per simulare un ritrovarsi, almeno in quella superficie modesta.
Per riappartenersi nell’inappartenenza, che al contempo lo scrivere sempre ripropone come un limbo, una zona pur ancora minata dall’imprevedibile reirrompere della sofferenza.

Nell’attesa che una terra nuova possa essere raggiunta o un tranello scoperto.

Autobiografia in 5 capitoli

Cap. I
Cammino per la strada.
C’è un buco profondo nel marciapiede.
Ci cado dentro.
Sono perduto… senza speranza.
Non è colpa mia.
Ci vuole un’eternità per uscire.

Cap. II
Cammino per la strada.
C’è un buco profondo nel marciapiede.
Faccio finta di non vederlo.
Ci ricado dentro.
Non ci posso credere eccomi di nuovo qui.
Ma non è colpa mia.
Ci vuole di nuovo un sacco di tempo per uscirne.

Cap. III
Cammino per la stessa strada.
C’è un buco profondo nel marciapiede.
Lo vedo bene che è lì.
Ci ricado dentro ancora… è un’abitudine!
I miei occhi sono aperti.
So dove mi trovo.
E’ colpa mia.
Ne esco immediatamente.

Cap. IV
Cammino per la stessa strada.
C’è un buco profondo nel marciapiede.
Ci giro intorno.

Cap. V
Cambio strada.

Da: RING. Heading Towards Omega, New York 1985.